9 febbraio 2011
Questa notte i militanti di Casaggì Firenze e della Giovane Italia hanno ricordato Paolo Di Nella, militante del Fronte della Gioventù ucciso dall’antifascismo nel 1983. Duemila manifesti recanti il suo nome ed una frase in sua memoria, sono stati affissi in ogni strada, in ogni scuola, in ogni facoltà ed in ogni luogo di aggregazione giovanile della città e dei principali comuni della Provincia fiorentina. Paolo, la notte del 2 febbraio 1983, era in affissione per le strade di Roma, assieme ad un’altra militante dell’allora movimento giovanile del MSI. Due persone, da dietro, lo aggredirono mentre era intento ad affiggere un manifesto, colpendolo alla testa con un corpo contundente. Morì il 9 febbraio, dopo una settimana di agonia.
Al suo capezzale, per la prima volta, accorse anche l’allora Presidente Repubblica Sandro Pertini, sancendo di fatto la fine di quel muro di omertà e di connivenza che per decenni aveva relegato ai margini la gioventù nazionalrivoluzionaria, lasciando che il triste motto “uccidere un fascista non è reato” non fosse soltanto una macabra pratica extraparlamentare, ma anche un fine voluto e cercato da chi apparteneva all’arco costituzionale e, talvolta, anche agli organi di Stato. Paolo morì mentre compiva un gesto nobile, di milizia e di libertà. Morì affiggendo un manifesto per Villa Chigi, uno spazio all’epoca abbandonato e degradato, che il Fronte della Gioventù si batteva per rendere alla cittadinanza sottoforma di comunità di quartiere e luogo sociale. Molti anni dopo, grazie anche al percorso intrapreso dalla destra politica che ha portato molti suoi compagni di lotta a far parte delle Istituzioni, quello spazio è stato restituito alla gente e porta oggi il suo nome.
Paolo fu ed è l’esempio di una militanza fatta di idee, di ribellione, di innovazione, di irriverenza, di grandi temi, di passione, di sacrificio e di lotta. Una vita vissuta appieno, che qualcuno ha stroncato prematuramente, ma che ha comunque lasciato un segno indelebile in chi, ancora oggi, sogna di portare avanti quel testimone ideale. Il suo ricordo non è soltanto la tradizione identitaria di una parte politica, ma dovrebbe essere un monito a tutto il paese: quello di sostituire l’odio cieco con l’amore per il dono di sè. Un insegnamento anche a chi, trent’anni dopo, vorrebbe trasformare la competizione politica in una guerra per bande.
“Io combatto anche per te, uomo qualunque, ma tu non mi ascolti.
Io muoio anche per te, uomo qualunque, e tu mi disprezzi.
Perché? Non importa.
I miei occhi malinconici,
la mia splendente giovinezza,
il mio caldo sangue color rubino:
io te li dono, uomo qualunque.
Io non ho le tue ricchezze,
non voglio per me il tepore accogliente della tua casa.
Tutto ti lascio, anche la mia vita”.
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