Come da tradizione Firenze ha ricordato Sergio Ramelli, giovane vittima dell’odio antifascista e della brutalità della violenza politica più cieca. E lo ha fatto nel migliore dei modi, assieme ai ragazzi di Casaggì e della Giovane Italia.
Una sala gremita, quella dell’Hotel Mediterraneo, affollata da gente di ogni età, con militanti di ogni generazione e semplici cittadini spinti dalla curiosità ad approfondire il clima degli anni di piombo attraverso la visione di “Milano Burning” e l’ascolto attento degli interventi di Paola Frassinetti, militante del FdG milanese assieme a Sergio ed oggi deputata; di Paolo Bussagli, regista dell’opera; di Achille Totaro, senatore e storica anima della destra fiorentina e di Francesco Torselli, consigliere comunale e fondatore di Casaggì.
Coinvolgente e a tratti commovente il documentario, realizzato grazie alla collaborazione dell’ex Ministro della Gioventù Giorgia Meloni e oggi veicolato in ogni città grazie all’impegno dei tanti attivisti e delle tante sigle che hanno raccolto il testimone ideale dell’impegno politico identitario e non conforme. Un viaggio nella memoria e nei racconti di chi, direttamente o indirettamente, ha vissuto uno dei più tragici episodi della storia italiana, un fatto di sangue frutto di una spietata logica omicida e di una lucida strategia di annientamento sistematico e premeditato dell’avversario politico, come nella prassi marxista. Una strategia che ha comunque, ancora, degli strascichi evidenti: nel filmato si mostrano i manifesti che, lo scorso anno, furono affissi fuori dalla sede di Casaggì, inneggianti proprio all’assassinio di Sergio. Gesti che lasciano sconcertati.
“Milano Burning” racconta la ricostruzione dei processi, le testimonianze dei vecchi amici di Sergio, dei suoi camerati, delle persone che lo hanno conosciuto e che hanno vissuto sulla propria pelle la tragedia del fanatismo di Avanguardia Operaia, che arriva a massacrare un diciottenne a colpi di chiave inglese senza neanche conoscerlo, solo perché aveva scritto un tema “scomodo” nel quale condannava le azioni omicide delle Brigate Rosse, che allora erano ancora considerate “sedicenti” e godevano di ottime coperture e di forti appoggi anche nelle alte sfere della società italiana.
Restano impresse le parole e lo sguardo di Anita Ramelli, madre di Sergio e donna dotata di una forza e di una dignità impagabili. Una donna che dopo aver subito l’assassinio del figlio sotto la finestra della propria camera è costretta a dover trasferire l’altro figlio lontano da Milano, perché minacciato di morte in quanto fratello di un fascista morto. Una donna costretta a subire, per anni e anni, telefonate minatorie e scritte sul portone, lettere anonime e spergiuri pubblici, nell’indifferenza e nell’omertà di quanti, in quegli anni, osservavano questo scempio in silenzio, perché impauriti dalla violenza dell’estrema sinistra. Quelli che da dietro le finestre osservavano ogni giorno, per anni, i subumani che andavano a gettare l’immondizia sul luogo del delitto, accanto ai fiori deposti dagli amici di Sergio, come spregio alla ragione e all’umanità, come ultima infamia di una sequela infinita di amenità. Una donna costretta a non veder neanche celebrare per intero il funerale del proprio figlio, perché “adunata sediziosa”, tra le cariche della polizia e la gente chiusa nei cellulari e portata in Questura senza motivo, solo perché presente ad un rito funebre che in quei giorni nessun parroco volle celebrare per paura delle ritorsioni antifasciste. Una donna che tuttavia non ha mai odiato, che non ha usato una sola parola di sproloquio, che non ha urlato, che ha parlato con la tranquillità e la forza d’animo di chi affronta la vita per come viene, senza paura.
Ed è così che va vissuto l’impegno politico, da ogni parte: con dignità e senza paura. Nella convinzione che le vie da percorre siano quelle dell’onore e non quelle dell’odio e della morte.
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