venerdì 28 agosto 2009

COME ERAVAMO DAVVERO...

di Marcello DE ANGELIS
Il diritto di raccontarsi

Tra gli epiteti maggiormente e volutamente insultanti che il pensiero dominante ci ha voluto assegnare in un passato che - almeno noi - auspichiamo passato per sempre, c’era quello di “nostalgici”. Non che la nostalgia sia un brutto sentimento; si ha nostalgia per le cose belle e, più si allontanano nel tempo, più i ricordi si abbelliscono e si ha spesso nostalgia di quello che si era piuttosto che di ciò che si è vissuto.
Così oggi potremmo anche essere nostalgici di come eravamo trent’anni fa, perché tutti hanno nostalgia dei propri vent’anni.
Non potevamo invece essere nostalgici di ciò che, essendo nati così lontano dal governo di Mussolini, non potevamo aver vissuto e - avendo iniziato la nostra militanza appena avuto accesso alle scuole secondarie - non avevamo nemmeno ancora letto nei libri.

Eppure anche l’ultimo cronista avrebbe giurato che noi eravamo - malgrado i nostri quattordici anni - essenzialmente quello: i “nostalgici del regime”. Quanto la cosa fosse idiota oggi appare evidente, ma allora non era così. Perché se è vero - ed è vero - che oggi il settanta per cento dei nostri colleghi giornalisti hanno una forma mentis di sinistra e spesso una passata militanza nella sinistra estrema, è altrettanto tragicamente vero che allora erano militanti effettivi e forse rappresentavano ben più del settanta per cento della categoria.

Vil razza dannata

Se non eravamo compromessi noi, comunque, si dava per scontato che lo fossero i nostri genitori, o almeno i nostri nonni o altri parenti. Il Msi era in fin dei conti il ridotto degli ex della Rsi e ne rievocava anche la sigla… La teoria aveva anche un fondamento statistico: essendo stati i volontari della Repubblica sociale all’incirca un milione, la possibilità che qualche nostro parente fosse tra loro era quasi scontato. Ma lo stesso valeva per buona parte degli italiani, ovunque fossero schierati. La teoria della discendenza di sangue però, aveva un appeal particolare per molti giornalisti militanti, perché giustificava ancor più la nostra identificazione con una vera e propria “razza dannata” da estinguere per salvare l’umanità. Eravamo un po’ come i vampiri, che si trasmettevano di generazione in generazione il sangue cattivo, sconfitto ma non vinto.

Il fascismo, per loro, non era un dato storico, ma antropologico e metafisico. Si trattava di un elemento maligno insito nella natura umana, il lato oscuro che covava in ognuno di noi e contro il quale la vigilanza non poteva mai cessare. Quindi, non essendo un dato storicizzabile, fascista era chi decidevano loro, così come sono gli psichiatri a determinare se qualcuno è affetto da una patologia e il semplice negare di esserne affetto (“io non sono matto!”) è conferma della malattia.
C’era una teoria quasi cosmogonica di questo assoluto fascismo che cospirava contro le forze del Bene, raccogliendo in un’alleanza tutte le forze del Male. Di questa alleanza noi eravamo solo la propaggine ultima, la più visibile e quindi più facile da colpire. Dietro di noi c’era la grande intesa tra Padroni, Clero, Mafia, Banche, Esercito, Magistratura, Servizi segreti nazionali, la Cia e più o meno tutta la malavita organizzata.

Una teoria demenziale che, non a caso, si riaffaccia oggi che la sinistra ha perso il potere e si trova in una crisi irreversibile.
Tutto era concesso contro di noi, perché noi eravamo collusi con tutti i potenti, finanziati, tutelati, protetti e apparentemente incolpevoli solo perché coperti e impuniti.
La realtà storica, com’è logico, dimostrò il contrario, anche se nessuno ha mai dato spazio ad approfondimeni adeguati sui rapporti intercorsi tra terrorismo rosso e vari servizi segreti, sui fondi neri e i finanziamenti occulti, mentre sulla connivenza di ampi settori della magistratura e della polizia con gli estremisti di sinistra ormai è stata fatta chiarezza. Troppi processi sono stati sbrigativamente conclusi per evitare che s’indagasse oltre.

Ci pesava particolarmente questo racconto vile sulla nostra presunta scelta di stare coi forti contro i deboli. Era ciò che noi ritenevamo più lontano dalla nostra scelta di vita. Quella che ci aveva portato a schierarci sempre coi pochi contro i molti e quasi sempre con gli sconfitti e i perseguitati. Stavamo coi sudisti perché i nordisti avevano vinto e stavamo con gli indiani, spiritualisti ingenui, truffati e sterminati dalla macchina senz’anima dell’espansione yankee. Ammiravamo Napoleone esule a Sant’Elena ma vibravamo per Chouan e Vandeani che resistevano nei boschi contro l’esercito giacobino. Eravamo con gli spartani alle Termopili, coi texani a Fort Alamo e con la Folgore a El Alamein e con i piloti suicidi giapponesi. Leggevamo Mishima e celebravamo la nobiltà della sconfitta. Non stavamo col regime franchista, ma con i giovani poeti falangisti fucilati con José Antonio Primo de Rivera dai repubblicani trionfanti a Madrid. Persino la nostra adesione all’Impero romano vacillava dinanzi alla eroica e vana resistenza di Vercingetorige e al massacro dei Germani a Treviri. Molti erano scettici sulle guerre coloniali del Duce, ma non era possibile non vibrare per i nostri coetanei che avevano scelto di “andare in Repubblica” a guerra perduta, per difendere l’onore d’Italia.
E già allora c’era chi diceva che anche i giovanissimi che si erano fatti partigiani, convinti di dover liberare l’Italia da un esercito straniero, andavano rispettati. Leggevamo le lettere dei condannati a morte di ambo le parti e ci piaceva trovare gli stessi toni e spesso le stesse parole, perché «gli eroi son tutti giovani e belli». Ovviamente non avveniva lo stesso dall’altra parte.
A noi piaceva sempre l’ultimo ridotto e non cercavamo il consenso delle folle, figurarsi dei potenti. Questo eravamo e non il suo contrario. E questo ci ha portato senz’altro a fare anche scelte sbagliate. Possiamo solo giustificarci dicendo che eravamo molto giovani, anche se persino questo aspetto è stato cancellato dai racconti che ci riguardano.

L’adolescenza negata
Anche noi eravamo giovani, invece, anzi giovanissimi. Anche noi eravamo creativi e trasgressivi, persino autoironici. Avevamo i nostri fumetti - nei quali ci prendevamo in giro da soli per i nostri vizi e i nostri vezzi. ritraendoci addirittura come “topi di fogna” - e le nostre canzoni, che non avevano strepiti di trombe e rulli di tamburi, ma normalissime chitarre, magari elettriche. Cominciammo a scriverle non perché avevamo ambizioni artistiche, ma semplicemente perché nessun altro cantava le nostre esperienze e la nostra lotta: e allora decidemmo di farlo da soli, con tutti i limiti e i sogni della nostra età. Anche se a noi l’adolescenza veniva negata. Quando i quotidiani raccontavano - invertendo quasi sempre i fatti - c’erano i “ragazzi democratici” o “antifascisti” o “di sinistra” e i “picchiatori fascisti”. Così come ancora oggi ci sono “i ragazzi dei centri sociali” o “antifascisti” e gli “estremisti” o “attivisti” o almeno “militanti di destra”, ma giovani mai. Gli altri sono sempre ragazzi, anche se hanno quarant’anni. Noi sempre una categoria astratta, possibilmente ruvida, se non aggressiva. Senza volto, comunque, e senza età.

Quando alla fine degli anni Settanta, subito prima che fossimo spazzati via da procedimenti giudiziari basati all’ottanta per cento proprio sugli articoli dei quotidiani e sulle schedature fatte dai giornali militanti di sinistra, qualche cronista aveva “scoperto” la nostra normalità e così la rappresentava: «Hanno i capelli lunghi, parlano e si vestono come i loro coetanei di sinistra e ascoltano la stessa musica…». Ma era, rivelava lo stesso autore, per «mimetizzarsi e meglio colpire i loro avversari», ovviamente. Troppo difficile accettare l’idea che fossimo anche noi, semplicemente, ragazzi e ragazze.

Forse anche al giorno d’oggi i tempi non ci concedono di dire cosa e come fossimo veramente, o quanto meno dirlo aspettandoci che la maggioranza ancora egemone dell’informazione lo accetti. Ma se non lo diciamo adesso, quando potremo dirlo?
Perché non è questione di scrivere libri di memorie o trattati storici post-ideologici - o peggio ancora di stendere autobiografie di dubbia obiettività - bensì di osare dire, senza retorica e indifferenti del profitto o della perdita politica, come fossimo davvero, per capire come siamo arrivati sin qui.
Credo che ormai - aldilà degli ancora troppi pennocrati in malafede - sia evidente a tutti che senza il Fascismo saremmo stati uguali. Se ci fossero stati gli arditi e poi i volontari di Fiume e i futuristi, noi saremmo stati come siamo stati, anche senza il Ventennio. Avremmo inteso il “menefrego” alla maniera degli arditi e gridato “boiachimolla” come i seguaci di d’Annunzio e non avremmo esitato a ripetere che «la parola Italia deve dominare sulla parola libertà» come faceva Marinetti.
Ma è ancora più vero che quando ci siamo gettati nella politica non sapevamo nemmeno quello. Non c’erano secchioni tra noi, è vero, ma è altrettanto falso che fossimo - come rappresentato in troppi filmini scadenti finanziati dallo Stato - “nemici dei libri”. Al contrario semmai, forse eravamo addirittura feticisti di alcuni libri, che conservavamo e ci passavamo di mano in mano, con delicatezza e rispetto sacrale, perché, pur adolescenti, eravamo consapevoli di essere custodi e cultori di una cultura destinata allo sterminio e all’estinzione. Leggevamo le poesie di Ezra Pound senza comprenderle appieno, ma già mezzo secolo prima che il Corriere della sera gli dedicasse pagine di lodi e “riscoperte”. Leggevamo Céline e Brasillach quando era inimmaginabile che un qualche quotidiano radical-chic lo regalasse in allegato. Per un libro di Nietzsche finivamo in questura e venivamo denunciati per un rotolo di manifesti con la faccia di Pound. Eravamo noi “il male assoluto”. Lo pensavano tutti ed era per questo che “ucciderci non era reato”.

Potremmo continuare a piangerci addosso per questo per un altro mezzo secolo, recriminare e pretendere le scuse del mondo intero, ma non eravamo fatti così e non lo diventeremo da vecchi. In fin dei conti a noi essere emarginati, calunniati, diffamati e perseguitati ci piaceva. Ci rendeva speciali. Anche se solo oggi possiamo dirci quanto fosse vero che lo eravamo. Perché molti di quelli che oggi (forse anche con grande convinzione) parlano di centrodestra, di valori nazionali, di Patria, allora militavano tra le fila di coloro che volevano che quelle stesse parole fossero bandite dal dizionario della lingua italiana, dicevano “sciovinista” e “patriottardo” e quando non insultavano irridevano.
Mi chiedo quanto siano consapevoli che non potrebbero oggi usare quelle parole se non fosse stato per noi. Noi abbiamo modificato la storia, abbiamo fatto argine alla barbarie e siamo stati insultati per questo, perseguitati e uccisi.

Ci hanno ritratto come bestie rozze e sanguinarie o forse solo ignoranti e stupide, vili e prezzolate, bugiarde e malate.
Forse i Trecento delle Termopili non erano l’élite intellettuale della Grecia, non erano raffinati come gli ateniesi o scaltri come i tebani. Forse erano davvero degli avventurieri che cercavano la gloria nello scontro, pieni della propria potenza fisica e della loro arroganza giovanile. Ma gli ateniesi avrebbero parlato di filosofia in lingua persiana e i mercanti del Pireo avrebbero dimenticato presto l’esistenza delle dracme e ancora prima quella degli dèi dell’Acropoli se quei trecento attaccabrighe non avessero fermato le armate dell’imperatore del mondo.
Chi eravamo? Forse nulla di originale, perché già altri nel corso della storia hanno usato per sé le stessi parole con le quali potremmo precisamente descrivere noi stessi: «eravamo amici… ed eravamo sapienti e colti. Eravamo uniti d’affetto come fratelli. Ci consideravamo tutti intelligenti e ci apprezzavamo vicendevolmente (…) non eravamo uniti da una precisa teorica. Ognuno voleva fare la sua rivoluzione. Una rivoluzione diversa dall’altro… Cosa ci teneva uniti? Forse l’urlo della folla inviperita contro di noi. Eravamo stretti seppur disseminati per tutta l’Italia e ci volevamo bene».
Così si raccontavano i giovani futuristi. Così potremmo raccontarci noi.

Noi, motore del cambiamento

Forse qualcuno accetterà anche questa autorappresentazione, ma obietterà che eravamo una minoranza nella minoranza, che tutti gli altri che stavano dalla nostra parte erano diversi da noi, erano cioè proprio come ci hanno sempre descritto e come ci vorrebbero ancora: chiusi, marginali, pittoreschi quando non grotteschi, primitivi nell’esprimersi e di bassi sentimenti.
Ammesso che fossimo una minoranza vuol dire che eravamo un’élite, perché siamo noi che a distanza di tanti anni continuiamo a rappresentare quel percorso e quella storia, quindi vuol dire che l’elemento caratterizzante eravamo noi.

Noi abbiamo trascinato il gran numero di persone che istintivamente e spesso approssimativamente si collocavano a destra, quando destra significava fuori da tutto e con tutti contro. Un giornalista di sinistra specializzato in “cose della destra”, al congresso di fondazione del Pdl cercava di sobillare dei delegati provenienti da An dicendogli che avevano rinunciato alla loro gloriosa storia e ai loro sacri simboli, ai loro riti segreti e alla propria autonomia… Che tristezza, diceva. E intendeva dire: cosa potrò più scrivere su di voi, come potrò dipingervi, raccontare il vostro folklore come un antropologo francese raccontava le danze dei boscimani nel Diciannovesimo secolo, come potrò più scrivere libri per rivelare al mondo le vostre assurde superstizioni e le vostre dottrine occulte? Come potrò presentarvi ai miei amici come i ricchi bostoniani presentavano nei propri salotti trombettisti jazz e ballerine negre se, tutto a un tratto, mi diventate anche voi normali?

Mi è stato allora evidente che anche il tempo della nostalgia per i nostri vent’anni ha fatto il suo tempo. Ora che i nostri morti sono diventati santini per illustrare i libri di improvvisati storici, ora che le nostre intime sofferenze sono carta e inchiostro per case editrici alla moda, ora che le nostre memorie sono diventate merce da dare in pasto ai curiosi. Ora che non passa un giorno che non incontriamo una decina di sedicenti ex militanti che però ai nostri tempi non abbiamo mai visto. Ora che vediamo giovani - per fortuna non tutti, ma comunque troppi - mortificarci con le loro cravatte troppo grandi da sfoggiare ai congressi e la loro corsa alle candidature, pronti a tradirsi l’un l’altro e tradire noi per accelerare la propria carriera.

Camicette nere
L’ultima estate degli anni Settanta, sulla spiaggia, parlavo di politica con mia cugina, militante della gioventù comunista e figlia del più intelligente e brillante giornalista di sinistra. Mi disse che lei - che aveva sei cugini che militavano a destra - in fondo la scelta di un maschio di essere “fascista” la capiva; quello che non poteva capire erano “le donne dei fascisti”. Le chiesi perché, ovviamente. E lei mi rispose che tutti sapevano che i fascisti picchiavano le loro donne… Le chiesi come potesse fare un’affermazione del genere e lei mi rispose che era cosa nota e l’aveva letta su Panorama. Feci presente che lei conosceva tutti noi che eravamo sangue del suo sangue e come poteva pensare che noi facessimo cose del genere? E lei rispose che noi non eravamo come gli altri fascisti, eravamo diversi… Il problema dei pregiudizi e degli stereotipi è che reggono di rado alla prova individuale.

Invece da noi le ragazze c’erano e avevano una caratteristica che le rendeva diverse da tutte le ragazze che facevano politica: non dicevano mai “noi donne”. Come noi non avremmo mai detto “noi giovani”. E questo era fondamentale, perché era una richiesta di essere giudicati per le proprie colpe e i propri meriti e non come soggetto collettivo. Alla faccia delle quote rosa… Nessuna rivendicazione se non il diritto di fare le stesse cose dei maschi e misurarsi sul sacrificio e sull’impegno, senza sconti. Noi dicevamo, di nostre colleghe di allora che lo sono ancora adesso, che erano “brave come un uomo”. Perché il nostro era un mondo di combattenti e quindi maschile e quelle che passavano la selezione avevano vinto ogni confronto. E irridevano le ragazzette che ci si avvicinavano col vestito alla moda o quelle che cercavano di guadagnare la nostra attenzione con l’arte della seduzione.
Per fortuna, dicevo, quelle ex ragazze, sopravvissute eroicamente e tutto e a tutti, ci sono ancora. Forse numericamente inferiori agli algoritmi delle quote di rappresentanza, ma qualitativamente rappresentative del meglio del genere femminile. Più militanti che attrici, più sobrie che esibizioniste e spesso anche mogli e madri.
Ce ne fossero cento di loro, la Nazione avrebbe secoli di gloria assicurati e figli migliori. Perché il domani non appartiene più a noi, ma a loro.

Ai nostri tempi valeva la pena morire; oggi è necessario vivere, per vigilare che il sacrificio non vada perduto. I valori non sono nelle affermazioni gridate, non nelle ostentazioni di simboli e uniformi. Ciò che ha valore si custodisce e si risparmia, perché possano goderne anche quelli che verranno dopo di noi. Non si dissipa la ricchezza per fare bella figura in giro, serve per sostentare una famiglia numerosa che verrà. Valga anche per la nostra storia. Che appartiene comunque all’Italia, non più soltanto a noi.

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